Accomodamenti linguistici e importanza dei modi di dire: il ribaltamento del punto di vista nel potente di turno, in alcuni dei maggiori romanzi italiani del secondo ottocento.
Cosa pensa Tognino Maccagno, fra i protagonisti di 'Arabella' di E. De Marchi (1892), dopo aver commesso uno 'sbaglio', un grave reato nel caso specifico, dopo, cioè, aver indebitamente sottratto un testamento, e quindi beni e denaro ai legittimi eredi, e averne redatto un altro, completamente falso?
Che la colpa è degli altri, 'dei liberaloni', della legge in generale, del popolo che invidia 'quelli come lui' e tende a depredarli, e, in particolare, di come la società è ingiustamente organizzata. Non manca, naturalmente, il vittimismo sulle scarse capacità affettive, relazionali, intellettive, di chi gli sta attorno: a sentire lui, 'il Maccagno' sarebbe 'un'incompreso'.
Quando il potere si manifesta come un vero e proprio abuso, la possibilità cioè di un infinito, generalizzato, insistente, lunghissimo vaniloquio.
«Buffoni! E quel buon uomo di Baltresca crede che io possa credere a queste famose pance democratiche, come i gonzi credono alle meravigliose virtù di Dulcamara! E io darò a mangiare il mio o mi lascerò dar del cavaliere da codesti nuovi frati della santa retorica, che spennano chi ci crede in nome dei grandi principii! Preferisco i preti, che almeno son più furbi! E come ha saputo toccare il tasto del liberalismo! E già, dovremo spendere un po' di denari, ma abbiam del margine. Se non basterà la prima istanza, andremo in appello, se non basterò io, chiameremo in aiuto un'altra pancia: abbiamo degli appoggi... siamo noi che facciamo la pioggia e il bel tempo; alla garibaldina… pam, pam! Buffoni! Non darò a rosicchiare a questi liberaloni il mio formaggio... fossi bestia! Vedo, come in uno specchio, che se mi lasciassi pigliare, non me la caverei più in trent'anni. Di tribunale in tribunale, di rinvio in rinvio, dopo avermi fatto spendere un capitale in carta bollata e in ricorsi, avrei la grazia di salvarmi un paio di scarpe. Faccian pure la causa, se hanno gusto, gli altri; io non mi muovo. Io non ho nulla a dimostrare ai giudici. Son essi che devono dimostrare che il mio testamento non è un testamento (...)».
Emilio De Marchi, Arabella, Mi, 1892
Nato a Milano nel 1851, Emilio De Marchi è morto nella stessa città nel 1901.
gioielli, anzi 'gioielloni', prossimamente da 24/7 Libri
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